C’è un punto preciso di Palermo dove ieri si è sentito un rumore sordo. Non il solito concerto di clacson, né il martellare dei cantieri eterni che infestano il centro. No: era il rumore più triste, più irreparabile, più colpevole di tutti. La porta di una libreria che si chiude. Per sempre.
E quando chiude una libreria, in una città come Palermo, non è una notizia: è
un referto.
È morto Sergio Flaccovio, libraio ed editore, gentiluomo d’altri tempi —
quelli veri, non quelli che si inventano nelle commemorazioni. Aveva 86 anni, e
con lui non se ne va soltanto un uomo colto e discreto: si spezza una delle
poche vertebre ancora sane della spina dorsale culturale di questa città. Una
vertebra che non ricrescerà.
La storia dei Flaccovio comincia nel 1938, anno in cui Salvatore Fausto,
patriarca con una visione da mercante veneziano trapiantato sotto il Monte
Pellegrino, apre in via Ruggero Settimo una libreria che, chiamarla “libreria”,
suona quasi offensivo. Era un salotto buono, un porto franco, un confessionale
laico dove l’isola portava i suoi peccati e le sue vanità, spesso senza
soluzione ma sempre con dignità.
Da quei battenti è passato il meglio — e anche un po’ del peggio, ma il
peggio nelle librerie fa meno danni che in Parlamento — dell’intellighenzia
italiana.
C’era Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che si aggirava tra i romanzi stranieri
come un viaggiatore in esilio; Enzo Sellerio, lo sguardo più tagliente della
Sicilia fotografata; Dacia Maraini, che ricorda “quella libreria piena di mondi
possibili” più o meno come altri ricordano una patria; Michele Perriera,
geniale e irrequieto come un’isola nell’isola; Cesare Zavattini, capace di
trovare un soggetto anche in un manuale di diritto amministrativo; e persino
Indro Montanelli, che qui, tra un giallo mediterraneo e un saggio di storia
locale, trovava più spirito critico che nei corridoi di via Solferino.
Montanelli, non a caso, diceva: “Le librerie sono i luoghi dove una città
mostra la sua anima — o il suo fallimento.”
Quando Salvatore Fausto muore, il testimone passa ai figli Sergio e
Francesco. Nessuna rivoluzione: si continua il rito. E i riti, quando sono
fatti bene, tengono in piedi le civiltà meglio dei bilanci comunali.
Sergio riapre la rivista Sicilia — chiusa dal 1982 — con il coraggio
di chi sa che certe follie editoriali non rendono in denaro ma rendono in
decenza. Rimette in circolo i romanzi di Luigi Natoli, soprattutto I Beati
Paoli, in edizione economica: per farli leggere anche a chi, la mafia, la
combatte più con la fatica che con i soldi.
La libreria cresce, si allarga, macina presentazioni come un antico mulino
macinava grano. C’è chi giura che in certi mesi Sergio partecipasse a più
presentazioni che pranzi, e sempre con un atteggiamento raro: ascoltava. A
Palermo, a volte, è già mezza santità.
Ma una storia, da sola, non salva nessun settore. E mentre i Flaccovio
resistono, il resto implode.
Negli anni Settanta e Ottanta Palermo era una piccola capitale editoriale.
Non di cartone, non da convegno: vera.
Sellerio — fondata da Enzo e da Elvira Giorgianni nel 1969 — esplode grazie a
Sciascia e a quel miracolo chiamato La memoria, una collana che Manfredi
ha descritto come “una bottega rinascimentale travestita da casa editrice”.
Palumbo, nata nel 1934, educa generazioni di studenti italiani con i suoi
manuali di letteratura e storia.
Novecento, fondata nel 1974 da Sciascia con Salvatore Morgana, pubblica libri
oggi introvabili, che nelle librerie antiquarie fanno la figura dei reliquiari.
E poi l’Antigruppo, con Roberto Alfonso, Antonio Veneziano, Lucio Zinna e un
giovane Vincenzo Consolo che cercavano di smontare le liturgie letterarie con
performance, poesia militante, provocazioni più serie dei convegni universitari.
Infine le librerie-sentinella: Prampolini, Dante, D’Oltremare. Luoghi in cui
era più facile trovare un libro che un panino. Era un’epoca in cui Palermo,
senza chiedere permesso a Roma, decideva cosa fosse cultura.
Poi — come sempre — è arrivato il “niente”.
Il niente fatto di Amazon, crisi, provincialismo digitale, e di quella
rassegnazione educata che qui scambiano per saggezza.
Le librerie hanno chiuso una dopo l’altra, come saracinesche di una borgata
all’ora di pranzo.
Le case editrici hanno tagliato collane, personale, ambizioni.
La Flaccovio ha resistito più di tutte, ma anche la resistenza, senza esercito
alle spalle, diventa un assedio.
Il resto della città, intanto, apriva bubble tea e sale scommesse. Nuovi
templi della cultura dominante.
Il ricordo più tenero lo racconta Lino Buscemi: una serata del 1995, “La
Notte di Cagliostro”, con Rosario La Duca e Lollo Franco a fare da istrioni.
Sergio — di solito misurato come un notaio — rise fino alle lacrime. E non era
il riso sciocco: era il riso di chi ha vissuto abbastanza da sapere che, ogni
tanto, ridere è un dovere civile.
Il nipote Giuseppe, cresciuto tra gli scaffali come un apprendista monaco,
scrive sui social:
«Insieme a mio zio Sergio ho avuto il privilegio di gestire la libreria
senza mai sentirne il peso. Era un porto franco culturale, crocevia di idee e
di rispetto.»
Poche parole, oneste. Montanelli le avrebbe approvate: “La brevità è la
cortesia dell’intelligenza.”
Il sindaco Lagalla parla di “eredità straordinaria”.
Confcommercio di “imprenditoria illuminata”.
Tutto vero, tutto giusto, tutto tardivo.
Perché Palermo ha avuto decenni per proteggere le sue librerie. Non lo ha
fatto.
In Francia, Germania, perfino in Portogallo, una libreria storica è un bene
da tutelare. Qui si aspetta il funerale.
Resta una verità che non entra nei bilanci, ma fa la differenza tra una
città viva e una città in coma:
una città vive finché vive chi la fa pensare.
Sergio Flaccovio è stato uno di questi.
Ha tenuto aperta una libreria quando tutto intorno si richiudeva.
Ha pubblicato libri quando nessuno li comprava più.
Ha creduto nella cultura come si crede nei figli: anche quando ti fanno
disperare.
Ora tocca a noi decidere se questa morte è un punto o una virgola.
Per sapere come sta una città, guardate le sue librerie.
Palermo oggi ha dato la sua risposta.
Ed è una risposta che non fa onore a nessuno.
